Gli squali di Plinio, tra verità e bugie

La maggior parte degli squali attacca, con enorme pericolo, chi si immerge in mare”.
Con queste parole Plinio il Vecchio comincia a descrivere, con realismo e dovizia di particolari, una lotta sottomarina tra squali e uomini:
Questi (gli uomini) raccontano che sopra le proprie teste compare una sorta di nube, simile ad un animale dei pesci piatti, che li opprime impedendo loro di risalire in superficie. Per questo motivo, portano sempre con loro dei pugnali molto appuntiti legati a delle cordicelle. Se tali bestie (gli squali) non vengono trafitte, non si ritirano. Ma credo che tutto questo sia opera dell’oscurità e della paura, di Nubi o Nebbie – così chiamano questo pericolo – nessuno ne ha mai trovate nel regno animale.”

Rilievo raffigurante una sirena. Battistero di Parma

Plinio riporta il racconto di uomini che, trovandosi di fronte allo squalo, avrebbero visto comparire una misteriosa nebbia sopra le proprie teste, una specie di nube opprimente che avrebbe impedito loro di risalire in superficie. Ma l’attento scienziato non può certo credere all’esistenza di tali fenomeni premonitori. Ci deve pur essere una spiegazione logica per un naturalista come lui, così curioso ed attento nella sua osservazione della realtà naturale, al punto da essere disposto a perdere la vita per le sue ricerche, come effettivamente accadde nel 79 d.C. quando Plinio perì sotto l’eruzione del Vesuvio.
La spiegazione del fenomeno che egli ci propone è in questo caso di tipo psicologico: è il terrore che s’impossessa dell’uomo, nel momento in cui avvista lo squalo, a bloccarlo e ad impedirgli la risalita in superficie.
Cum caniculis atrox dimicatio“, ovvero “con gli squali si svolge una lotta atroce“, continua l’autore del trattato Naturalis Historia, nel nono libro dedicato alla Zoologia. La descrizione è di un realismo sorprendente, sembra quasi di vedere la scena davanti ai nostri occhi.

Ravenna. Particolare di mosaico paleocristiano con figura di sirena a due code

“(Gli squali) Prendono di mira gli inguini, i talloni e ogni parte bianca del corpo. L’unica forma di salvezza sta nell’attaccarli direttamente e nello spaventarli a loro volta. Questi animali hanno paura dell’uomo nella stessa misura in cui l’uomo a loro ispira terrore, e così tra le onde la partita è pari. Una volta giunti in superficie, là il pericolo è doppio, essendo tolta all’uomo la possibilità di attaccare mentre tenta di uscire dall’acqua. Ogni possibilità di salvezza dipende dai suoi compagni. Essi lanciano una fune legata alle sue spalle. Quello, mentre lotta in acqua, la scuote con la sinistra per dare il segnale di pericolo. Con la destra, afferrato il pugnale, è intento nella battaglia. Dapprima i tratti di corda sono moderati. Ma quando è arrivato vicino alla chiglia della barca, se non lo tirano su di colpo velocemente lo vedono inghiottire dalla bestia. E spesso, quando è già emerso viene strappato dalle loro mani, se lui stesso non favorisce l’azione dei suoi soccorritori raggomitolandosi a palla. Altri invece prendono il tridente, ma quella bestia mostruosa ha l’abilità di andare sotto la barca e di combattere così da una posizione ben riparata. Il segnale più rassicurante è nel vedere dei pesci piatti sul fondale, perché questi non si trovano mai dove sono quelle bestie malefiche. E per questo motivo, chi si immerge nel mare li chiama “pesci sacri”. (Plinius, Naturalis Historia, IX,151-153)
In realtà la presenza di pesci piatti sul fondale, rombi o sogliole che siano, non garantisce l’assenza di squali nelle vicinanze. Ma questo Plinio il Vecchio, che forse non si era mai immerso così in profondità, non poteva saperlo.
Proprio come non poteva immaginare che quella misteriosa pietra – ritenuta magica e divinatoria non solo dai suoi contemporanei ma anche dai posteri nel corso del medioevo – quella pietra appuntita per la quale il famoso naturalista latino coniò il termine glossopetra (dal greco glòssa ovvero lingua, e dal latino petra che sta per pietra) altro non era che un dente di squalo fossile.

Roma. Lastra marmorea con rilievo zoomorfo marino di età imperiale

Ma per questo bisognerà attendere il XVI secolo, quando gli studiosi Konrad Von Gesner e Fabio Colonna noteranno per primi le analogie tra quella strana pietra triangolare e i denti di squalo fossili.
Nel trentasettesimo ed ultimo libro del suo trattato Naturalis Historia, Plinio scriveva: “La glossopetra, simile alla lingua umana, si dice non provenga dalla terra, ma cada dal cielo durante le eclissi di luna. Viene considerata altamente necessaria agli scopi della selenomanzia”.
“Si dice”, “viene considerata”, forme impersonali utilizzate da Plinio per non sbilanciarsi troppo. In effetti lo scienziato che è in lui si rivela scettico sulle  proprietà divinatorie e magiche della glossopetra. E per dimostrarne la non attendibilità, egli aggiunge alla sua descrizione un’ulteriore presunta proprietà della “lingua di pietra” : il potere di fermare i venti e di renderli silenziosi! Questa volta, tuttavia, Plinio fa chiaramente intendere che una notizia così incredibile non può che essere palesemente falsa. (Plinius, Naturalis Historia, XXXVII, 59)

Antonella Bazzoli, 24 giugno 2010

Riferimento bibliografico:

Traduzione di Silvestre Ferruzzi, basata su quella di Alberto Borghini (ed. Einaudi 1983: Plinius Secundus Gaius, Storia Naturale, Antropologia e zoologia : libri 7-11)

La maggior parte degli squali attacca, con enorme pericolo, chi si immerge in mare. Questi raccontano che sopra le proprie teste compare una sorta di nube, simile ad un animale dei pesci piatti, che li opprime impedendo loro di risalire in superficie. Per questo motivo, portano sempre con loro dei pugnali molto appuntiti legati a delle cordicelle; se tali bestie non vengono trafitte, non si ritirano.Ma credo che tutto questo sia opera dell’oscurità e della paura; di «Nubi» o «Nebbie» – così chiamano questo pericolo – nessuno ne ha mai trovate nel regno animale.
Con gli squali si svolge una lotta atroce. Prendono di mira gli inguini, i talloni e ogni parte bianca del corpo. L’unica forma di salvezza sta nell’attaccarli direttamente e nello spaventarli a loro volta. Questi animali hanno paura dell’uomo nella stessa misura in cui l’uomo a loro ispira terrore, e così tra le onde la partita è pari. Una volta giunti in superficie, là il pericolo è doppio, essendo tolta all’uomo la possibilità di attaccare mentre tenta di uscire dall’acqua. Ogni possibilità di salvezza dipende dai suoi compagni. Essi lanciano una fune legata alle sue spalle; quello, mentre lotta in acqua, la scuote con la sinistra per dare il segnale di pericolo. Con la destra, afferrato il pugnale, è intento nella battaglia.
Dapprima i tratti di corda sono moderati; ma quando è arrivato vicino alla chiglia della barca, se non lo tirano su di colpo velocemente lo vedono inghiottire dalla bestia. E spesso, quando è già emerso viene strappato dalle loro mani, se lui stesso non favorisce l’azione dei suoi soccorritori raggomitolandosi a palla.
Altri invece prendono il tridente, ma quella bestia mostruosa ha l’abilità di andare sotto la barca e di combattere così da una posizione ben riparata. Il segnale più rassicurante è nel vedere dei pesci piatti sul fondale, perché questi non si trovano mai dove sono quelle bestie malefiche. E per questo motivo, chi si immerge nel mare li chiama «Pesci sacri».

Testo originale:

Canicularum maxime multitudo circa eas urinantes gravi periculo infestat. Ipsi ferunt et nubem quandam crassescere super capita, animali planorum piscium similem, prementem eos arcentemque a reciprocando, et ob id stilos præacutos lineis adnexos habere sese, quia nisi perfossæ ita non recedant, caliginis et pavoris, ut arbitror, opere. «Nubem» enim et «Nebulam», cuius nomine id malum appellant, inter animalia haut ulla conperit quisquam.
Cum caniculis atrox dimicatio. Inguina et calces omnemque candorem corporum appetunt.
Salus una in adversas eundi ultroque terrendi, pavet enim hominem æque ac terret, et ita sors æqua in gurgite. Ut ad summa aquæ ventum est, ibi periculum anceps adempta ratione contra eundi, dum conetur emergere, et salus omnis in sociis. Funem illi religatum ab umeris eius trahunt; hunc dimicans, ut sit periculi signum, læva quatit, dextera adprehenso stilo in pugna est. Modicus alias tractus; ut prope carinam ventum est, nisi præceleri vi repente rapuit, absumi spectant. Ac sæpe iam subducti e manibus auferuntur, si non trahentium opem conglobato corpore in pilæmodum ipsi adiuvere. Protendunt quidem tridentes alii, set monstro sollertia est navigium subeundi atque ita e tuto prœliandi. Omnis ergo cura ad speculandum hoc malum insumitur. Certissima est securitas vidisse planos pisces, quia numquam sunt ubi maleficæ bestiæ, qua de causa urinantes «Sacros» appellant eos.