Il Leone nel medioevo tra peccato e assoluzione

Il mito del primato leonino nel mondo degli animali vanta una storia tanto lunga quanto ricca di colpi di scena, e che molto dovette ai fattori socio-culturali, geografici e religiosi che investirono le varie civiltà del bacino mediterraneo, autrici indiscusse di questa corsa al potere tra le belve, della quale risultò indiscusso dominatore, per l’appunto, il leone. E’ bene partire da considerazioni di carattere meramente geografico-etologico e riuscire a comprendere, per noi abitanti di un mondo in cui il rapporto con le belve selvatiche è decisamente ridimensionato – o meglio, ormai quasi annullato nella quotidiana gamma di possibilità della vita di un uomo comune – , in che termini si ponesse l’effettiva convivenza tra i popoli dell’antichità greco-romana e mesopotamica e, in seguito, del Mediterraneo medievale, e i grandi felini che popolavano le ampie zone di natura vergine sparse nelle aree comprese tra il Medio-Oriente e l’Europa più orientale e l’Africa settentrionale.
Il leone era anticamente diffuso nei territori dei Balcani, della Turchia e del Medio Oriente; la specie, differente da quella del leone africano (Panthera Leo), e che potrebbe essere riconducibile a quella, attualmente in pericolo d’estinzione, del leone asiatico (Panthera Leo Persica), convisse abitualmente con l’uomo fino alla sua progressiva diminuzione e scomparsa nel periodo compreso tra l’VIII e il XII secolo d.C.

 

Soldato con elmo e scudo crociato che tiene per una zampa il leone che ha ucciso. Rilievo dal portale del Palazzo dei Priori. Perugia. Foto A. Bazzoli

Val la pena notare come il leone appaia in gran parte dei cicli mitologici dell’antichità in ruoli che ben si confanno alla sua effettività etologica: belva feroce ed aggressiva, il super predatore dell’area mediterraneo-iranica e il concorrente dell’uomo nella dominazione della natura; l’allegoria stessa del nemico naturale, della potenza bestiale ed irrazionale, opposta a quella razionale e civilizzata dell’essere umano. Pur sempre un capo, in verità, la summa di tutto ciò di cui l’uomo potesse aver motivo di temere nella minacciosa e sconfinata marea di vitalità estranea ai processi della civilizzazione urbana. Oltre la città, oltre lo spazio cinto da mura, lo spazio dell’uomo, c’era lo spazio irrazionale e violento della istintività, della primordialità naturale di cui il leone assumeva gli attributi di potere e pericolo. Il mito della sua uccisione, o meglio della sua dominazione, attraversa le civiltà lì dove urge identificare quei “campioni” dell’uomo che sconfinano nella natura, istanza di una creatura “razionale” che estende la sua mano e il suo desiderio di controllo anche su quella dimensione proibita dell’oltre-città.

Nella prima scena Sansone sconfigge il leone, nella seconda Dalila taglia i capelli a Sansone

Personaggi come Eracle o Sansone possono ben essere definiti a cavallo tra i due mondi, simboli di un’umanità ferina e villosa che non teme l’oscurità della foresta e le solitudini del deserto – si badi che la figura del cacciatore, ancora nel medioevo, mal si amalgamava con il consesso sociale dell’uomo urbico per assumere caratteri più marcatamente selvatici, se non quando demoniaci (si rimanda in proposito al fondamentale saggio di Marc Bloch “Caratteri originali della storia rurale francese”, Einaudi 1973). Il leone – nell’antichità classica e romana animale ben più comune che nel Medioevo – potendo essere incontrato con relativa semplicità in un normale viaggio nei territori dell’oriente europeo e nella Palestina, o fatto esibire nei circhi ed anfiteatri in macabri spettacoli di lotte tra uomini e animali, lungi dall’essere soggetto a idealizzazioni di sorta, non poteva che significare per l’uomo esattamente ciò che era nella realtà: violenza indomabile e terrificante.
La “situazione simbolica” del leone non poté dunque che subire delle ovvie evoluzioni con l’avvento progressivo del cristianesimo, in Oriente prima e in Occidente poi, con tutto il suo vasto corollario di simboli e allegorie. Sia emblematico il fatto che numerosi imperatori bizantini, ormai pienamente cristiani, assunsero il nome di Leone: ben due esponenti della dinastia Isauriana, Leone III e Leone IV.

Il leone tra le palme è affrescato nella chiesa duecentesca dei Templari di Perugia.

Il XII secolo vide la definitiva supremazia del leone nel mondo naturale come rex omnium bestiarium, non già rex animalium[1] per il cui appellativo si dovrà attendere il XIII secolo e le enciclopedie di Tommaso di Cantimpré, di Bartolomeo l’Inglese e di Vincenzo di Beauvais.[2] I tre enciclopedisti insistono a lungo sulle qualità di forza, coraggio, liberalità e magnanimità del leone, qualità che, seppur non sintetizzate nel titolo esemplificativo di “re degli animali”, erano già ampiamente entrate a far parte del suo corredo morale dal XII secolo almeno. Basti pensare alla figura del Re Noble nel Roman de Renart, alle sue qualità e alla balorda ridicolizzazione di Brun, l’orso, l’altro antagonista di stirpe celtico-germanica per il titolo di rex, sconfitto dal leone dopo una lunga battaglia di cui la Chiesa fu tra le più importanti promotrici.
Il leone, da buona parte della letteratura patristica e da Agostino designato come simbolo e incarnazione di Satana e della sua violenza brutale, sulla scorta della sua effettività reale e dei suoi precedenti nel mito e nelle Scritture, diventa infine simbolo stesso di forza, nobiltà, coraggio, valore e, in particolar modo, emblema di Cristo, tramite un processo di diffusione che dall’oriente greco-bizantino e iranico approda nelle buie foreste dell’Europa nord-occidentale, dominate ancora dall’orso villoso, diffondendo il nuovo ideale di dominatore degli animali che senz’altro deve molto alla fortuna dei bestiari, a loro volta derivanti dal modello alessandrino del Phyisiologus [3].

Il nuovo leone che si diffonderà, soppiantando la vecchia belva biblica, sarà il leone simbolo della tribù di Giuda, la più potente d’Israele. Simbolo di Davide, simbolo di Cristo, il grande felino percorre una strada fortunata che ribalterà velocemente la sua fama. All’orso non rimarrà che l’impietosa strada della demonizzazione: animale feroce, violento, ferino ma ambiguamente antropomorfo, diviene creatura lussuriosa e peccatrice, stupratore di donne e figura satanicamente distorta delle fattezze umane. E’ dall’inizio del pieno medioevo, grossomodo dal XII secolo in poi, che cominciano ad esser comuni nomi propri o soprannomi che propongono riferimenti al leone, tanto in personaggi storici che in eroi letterari (Lionel di Lancillotto, Leone di Bourges). Il leone di questi nomi è solitamente quello dell’intrepido coraggio cavalleresco, della ferocia e dell’ardore in battaglia (è il caso di Enrico il Leone, duca di Sassonia e cognato di Riccardo I Plantageneto); tuttavia il leone dei bestiari o delle raffigurazioni ecclesiastiche è anche quello che cancella con la coda le proprie orme, come Cristo nasconde la propria origine divina facendosi uomo; è il leone che dorme ad occhi aperti, come Cristo che nella tomba addormenta la sua natura umana, ma veglia con quella divina.[4] E’, in ultimo, il leone salvato dal serpente dalla prodezza di Yvaine in via di rinsavimento dalla sua follìa nel romanzo di Chretien de Troyes Yvaine ou le chevalier au lion, suo futuro compagno di avventura cavalleresca.

Quest’esplosione di leoni a metà tra il profilo cristologico e quello cavalleresco (e tali due aspetti non di rado, nel mondo medievale, tendono a confondersi almeno iconograficamente) nell’arco di tempo compreso tra il XII ed il XIV secolo non poté non sortire, come effetto, l’attribuzione ai personaggi più in vista d’Europa di un soprannome che avesse a che fare con il leone. Prendiamo come valido esempio il caso di Riccardo I Plantageneto, detto Cuor di Leone, e analizziamone la fenomenologia.

il leone, emblema di Cristo, sconfigge il “serpente antico”

Una tradizione del XIV secolo spiega la romanzata origine dell’attributo “cuor di Leone”: durante la sua prigionia nel castello del re di Germania, Riccardo godette delle grazie della giovane e bella figlia del re che passava con lui molte notti d’amore. Venutolo a sapere, il re volle togliere di mezzo Riccardo facendo entrare nella sua cella un leone affamato. Riccardo lottò a mani nude contro la fiera, la sconfisse, ne strappò il cuore che mangiò davanti all’esterrefatta corte tedesca [5].
Il tema del cuore mangiato, per nulla inusitato nella letteratura amorosa-cortese del XIII-XIV secolo, si sposa mirabilmente col tema di matrice biblica dell’eroe che uccide a mani nude un leone (topos dell’antichità, da Sansone a Davide, ma anche Ercole).
La storia, piuttosto ingenua nella ricostruzione della prigionia di Riccardo sotto l’imperatore Enrico VI, si colloca in un’epoca di crescita e differenziazione dei simboli nelle arme, con relativa diminuzione dello strapotere del grande felino nei blasoni, che rimaneva tuttavia il re dell’araldica. Il soprannome “Cuor di Leone” è in verità ben più antico, coevo allo stesso Riccardo. La cronaca di Bernardo Itier, redatta tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII riporta: Scripsit B. Iterii feria sexta vigilia S[anct]i Johannis Baptistae quod ipso anno obiit Ricardus cognominatus Cor Leonis…[6

Un personaggio con berretto frigio tra due leoni. Che sia Daniele nella fossa dei leoni?

Ambrogio il Normanno, al verso 2310 della sua Estoire de la guerre sainte, parla del “preuz reis, le quor de lion”, e ancora ai vv. 11496-97 “La veissez tanz Turs acorre/Droit a la baniere al lion!”. Riccardo è il Leone, o meglio è degno di avere un cuore di Leone per il suo coraggio e la sua furia in guerra. Le sue gesta a Cipro, in Terrasanta e dunque in Francia al suo ritorno fino all’esito tragico di Chalus, confermano questa natura. Riccardo è tuttavia leone anche per nobiltà, per sdegno aristocratico: quello stesso sdegno che, a detta dei cronisti (in particolare Ambrogio e Riccardo di Devizes) rese ad egli intollerabile il comportamento dei rivoltosi griffones messinesi e lo spinse ad agire con violenza in occasione della sua tappa a Messina durante la Terza Crociata, a differenza invece della timida (o forse colpevole?) accondiscendenza che verso tali disordini dimostrò Filippo Augusto di Francia, “l’Agnello”. La forza leonina e l’imparzialità di Riccardo erano palesi ed incontrovertibili: definendo, con Riccardo di Devizes, “agnus” il Capetingio, autonomamente gli stessi Grifoni si affrettarono a considerare “leonis” il Plantageneto. Tale binomio era già stato esperito dal cavaliere trovatore Bertrand de Born, a seguito delle tremende guerre che Riccardo, a fianco dei fratelli Enrico il Giovane e Goffredo, combatté contro un ormai vecchio e debole Enrico II;[7] Riccardo era già leone almeno dai tempi della pacificazione dell’Aquitania, fatta di sua mano per volontà del padre, del 1175.

E’ interessante notare come sottili differenze iconografiche potessero esser foriere di inestricabili inghippi; il blasone dei Plantageneti presenta, all’epoca di Riccardo, tre leoni d’oro in sfondo rosso. Così possiamo vedere nella miniatura del folio 9 recto dell’Historia Anglorum di Matthew Paris, contenuta nel MS Royal 14.C.VII della British Library, che illustra quattro re inglesi, Enrico II, Giovanni, Enrico III e, per l’appunto, Riccardo. E’ rilevante che i tre leoni del blasone siano raffigurati di profilo, ma la loro testa guardi frontalmente il lettore. Elemento inusitato, dato che il leone è solitamente rappresentato integralmente di profilo; l’animale leonino con corpo laterale e testa frontale aveva una sua autonomia nell’immaginario del blasone medievale.

La belva stringe con gli artigli il corpo di un uomo mentre ne divora la testa.

E’ la rappresentazione del leopardo, animale del quale l’araldica e la simbologia non avevano in verità una grande coscienza etologica, ma che preferivano considerare piuttosto, con beneplacito d’interpretazione, una sorta di leone degenerato, o meglio il corrispettivo malvagio del leone.[8] Qualsiasi animale raffigurato frontalmente godeva sovente dello status di malvagio, se non addirittura infernale. Il leopardo era la controparte disonorevole del leone, privo d’ogni scrupolo, feroce e violento senza motivo, arrogante, empio e distruttivo, frutto dell’unione della leonessa con il pardus dei bestiari, nato per prendere su di sé gli attributi malvagi del leone biblico e di quello descritto dai Padri della Chiesa; per quanto il nobile animale della savana avesse assunto un significato cristologico più che sufficiente per riscattare la sua fama, la parola della Scrittura e gli insegnamenti patristici, ostili al leone, non potevano certo essere eliminati con un’alzata di spalle. Il leopardo è il capro espiatorio delle colpe storiche di un animale che non può più permettersi di peccare, incorrendo nella medesima damnatio memoriae che, a suo tempo, aveva subito l’orso. Per molto tempo l’araldica plantageneta continuò a tollerare tale creatura nel proprio blasone, a dispetto della sfortuna che l’animale contemporaneamente incontrava nell’interpretazione enciclopedica e bestiaria; soltanto nel XIV secolo si avvertì la preoccupazione di chiarire l’inghippo, non certo modificando l’ormai ben fissata immagine dello stemma bensì giocando con le parole per neutralizzare la carica demoniaca dell’animale infernale. Fu tra il 1350 ed il 1380 che gli araldi d’armi al servizio di Riccardo II scelsero di non utilizzare più l’esplicita dizione leopardo bensì lions passant guardant (leoni orizzontali con la testa frontale)[9], trasformando con una perifrasi una svista iconografica di non poco conto.[10] E tuttavia possiamo a diritto pensare che, all’epoca di Riccardo, si fosse ben consapevoli di questo tutt’alto che ingenuo equivoco, se un epitaffio sulla morte di Riccardo, riportato dal cronista Matthew Paris, recitava:
[..] Re Riccardo, il fulcro del regno, è caduto a Chalus: per alcuni egli era terribile, per altri dolce; per questi era un agnello, per quelli un leopardo.[11]
Al di là della reale consapevolezza naturalistica che l’epoca medievale poteva vantare in relazione al mondo di cui aveva esperienza, è senz’altro affascinante scoprire i processi che portavano all’adesione a modelli fortemente antropizzati o funzionali alla dimensione umana, nell’impatto/scontro con il mondo conoscibile. Tra le presunte tenebre dell’oscuro millennio medievale si può forse cogliere la più alta istanza conoscitiva dell’uomo, perseguita coi mezzi della ragione e della creatività.

di Francesco Cimino – 21 novembre 2013


[1] De bestiis et aliis rebus, libro II, cap. 1; F. Unterkircher, Bestiarium. Die texte der handschrift Ms. Ashmole 1511 del Bodleian Library Oxford, Graz 1986, p. 24.

[2] Tommaso di Cantimpré, Liber de natura rerum, a cura di H. Boese, Berlino 1973;, pp. 139 – 141; Bartolomeo l’Inglese, De proprietari bus rerum, Koln 1489, fol. 208; Vincenzo di Beauvais, Speculum Naturae, Douai, 1624, libro XIX, capp. 66 – 74.

[3] Si veda N. Henkel, Studien zum “Physiologus”, Tubingen 1976.

[4] Ibidem, pp. 164 – 167.

[5] Der mittelenglische Versroman uber Richard Lowenherz, a cura di K. Brunner, Wien 1913, vv. 880-1100.

[6] Jean Flori, Riccardo Cuor di Leone, il Re Cavaliere, Einaudi 2004, p. 222.

[7] Bertrand de Born in Gouiran, L’amour et la guerre.

[8] H. S. London, Lion or Leopard?, in The coat of Arms, t. II, 1953.

[9] M. Pastoureau, Medioevo Simbolico, Laterza 2010.

[10] E. E. Dorling, Leopards of England and other Papers on Heraldry, London 1913.

[11] Matthew Paris, Chronica Majora, II p. 45, edited by H. R. Luard, Rolls Series, in Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, or Chronicles and Memorials of Great Britain and Ireland during the Middle Ages, Rolls Series 1857.