L’Abbazia di San Vincenzo al Furlo

Lungo la Flaminia, l’antica via consolare romana che collegava Roma ad Ariminum, nei pressi della cittadina di Acqualagna, nel 76 d.C. venne fatto realizzare da Vespasiano un traforo che fu chiamato “petra pertusa” o “forulum”, termine da cui derivò il nome attuale di Furlo. La nuova galleria sorse accanto ad un piccolo tunnel precedente, forse di epoca etrusca, che era diventato insufficiente per il passaggio degli imponenti eserciti romani e dei carri con cui numerosi coloni attraversavano quel territorio impervio, ma rigoglioso di vegetazione.

All’incirca a metà strada tra il centro di Acqualagna e la galleria del Furlo, sulla riva sinistra del fiume Candigliano, venne edificata un’abbazia, un gioiello di architettura medievale, l’Abbazia di San Vincenzo al Furlo. Fu costruita sui resti di un tempio pagano, appartenente alla distrutta città romana di Pitinum Mergens, nel VI secolo, e  accolse le spoglie di San Vincenzo, vescovo di Bevagna,  portate in salvo dagli abitanti della città umbra che era stata distrutta dai Longobardi. L’abbazia in breve tempo diventò ricca grazie alle offerte in denaro che i viandanti facevano per ringraziare Dio dell’ essere usciti indenni  dall’attraversamento del Furlo. Fin dai primi secoli dell’era cristiana, infatti, quella gola era diventata famosa per i ladri e i briganti che vi si nascondevano. Questi annegavano nel fiume sottostante i malcapitati costretti a passare da lì, dopo averli spogliati di ogni loro avere.  Per questo sembra che, fin dal III sec. d.C.,  l’Imperatore Marco Giulio Filippo, detto l’Arabo, fu costretto a porre un presidio di 20 soldati a protezione dei viandanti.

Il nome dell’abbazia si ritrova poi in un documento del 970, allorché Deodorico, vescovo di Metz e cugino dell’Imperatore Ottone I, approfittando delle difficoltà economiche in cui il cenobio, pur essendo florido di monaci, sembra versasse in quegli anni, riuscì ad ottenere, dietro lauto compenso, le reliquie del Santo e le portò con sé in Francia, dove molti secoli più tardi sarebbero andate disperse durante la Rivoluzione francese. Forse anche grazie alla cospicua somma ottenuta, l’abbazia rifiorì tanto che nel corso del Mille raggiunse l’apice del suo splendore, esercitando il suo potere su un territorio di oltre 50 kmq. Fu quello il periodo in cui vi dimorarono San Romualdo e, successivamente, San Pier Damiani che negli anni 1042-1043 scrisse proprio in questo luogo la “Vita Beati Romualdi”. Quando poi quest’ultimo venne nominato abate del monastero, dette ai benedettini regole più rigorose di quelle che aveva già dato Romualdo. Questo allo scopo di riportare ordine e nuovo slancio religioso tra i monaci che si erano lasciati andare ad una vita di rilassatezza non consona alla loro fede ed alla loro regola.

Nel 1246 il complesso monastico venne in gran parte danneggiato a causa di un incendio appiccato  dai Cagliesi: la città di Cagli era venuta in contrasto coi monaci in quanto voleva avocare a sé la giurisdizione di un buon numero di Castelli del territorio circostante. Nel 1271 l’abbazia con l’annesso monastero venne ricostruita, come attesta un’ iscrizione posta sull’architrave del portale di ingresso che così recita:

A.-D. MCCLXXI. ECCLESIA VACANTE. ET IMPERIO. NULLO, EXISTENTE. BONAVENTURA ABB(BA)S S. VINCENTII. H(OC) OPUS FIERI FECIT. L’iscrizione riferisce la data della ricostruzione e ricorda che questa venne fatta per volontà dell’abate Bonaventura quando la sede pontificia era vacante ed anche il trono imperiale.

Dopo altre drammatiche vicissitudini accadute durante lo scisma che, dal 1378 al 1417, lacerò la Chiesa occidentale, l’Abbazia venne, nel 1439, annessa al Capitolo di Urbino con tutti i beni che possedeva e da quel momento cominciò il suo degrado e l’abbandono da parte dei monaci.

Oggi l’abbazia si presenta agli occhi del visitatore in tutta la sua maestosa semplicità. Un’ampia facciata a capanna, con al centro una monofora quattrocentesca, accoglie un bel portale ad arco a tutto sesto. La lunetta era affrescata e l’architrave, decorato con motivi fitomorfi, è sovrastato da un epistilio pertinente al tempio pagano. La piana superficie della facciata, sulla quale si intravede solo qualche erratico inserimento decorativo, si spiega col fatto che agli ordini minori venivano rivolte precise norme che ponevano limiti alle decorazioni scultoree delle chiese, allo scopo di evitare lo sfarzo che cominciava ad apparire in alcuni luoghi di culto.

La chiesa era orientata lungo l’asse canonico est-ovest per consentire la preghiera rivolta ad Oriente, sulla sua destra sorgeva il convento con l’annesso chiostro. Tutto il complesso fu costruito con la pietra locale, la pietra corniola del Furlo. L’interno doveva essere diviso in tre navate, tutte concluse con un’abside. Attualmente ne resta solo una, la cui prima campata è coperta da un soffitto  a capriate , mentre la seconda e la terza da volte a crociera.  Il presbiterio, illuminato da una monofora archiacuta, è fortemente rialzato ed è raggiungibile per mezzo di una scala centrale di 15 scalini. Era adorno lungo le pareti di affreschi quattrocenteschi di scuola umbro-marchigiana, alcuni dei quali ancora ben leggibili. Entro riquadri definiti da cornici, troviamo ripetuta per due volte una Madonna con Bambino, San Vincenzo ed altri Santi tra i quali riconosciamo  San Sebastiano, San Gregorio e San Rocco. Certamente il dipinto più antico, di un anonimo pittore, è una Madonna del latte, frontale, ieratica, col capo coronato, che sembra affacciarsi al centro di due tende scostate, quasi fosse il boccascena di un teatro. Il pavimento è costituito da spesse lastre di pietra di epoca romana e paleocristiana. A destra del presbiterio, forse sopravvissuta all’incendio del 1246, resta un’abside più piccola, preceduta da un vano raccolto, forse adibito a sacrestia. Alla cripta, la parte più antica della chiesa, si scende attraverso due aperture poste ai lati della scala che porta al presbiterio: I’arco a sinistra, a tutto sesto, è romanico, quello di destra, ogivale, è gotico. La cripta è sostenuta da sei colonne a fusto liscio  i cui capitelli sono decorati con motivi fitomorfi o tratti dai bestiari bizantini, ma scolpiti a bassorilievo e in modo stilizzato. Al centro un altare-sarcofago  che al suo interno accolse le reliquie di San Vincenzo. Attualmente appare aperto sul davanti e la lastra di marmo che lo copriva, sostituita da un altro piano del XVI secolo, ora giace in terra, di fronte all’altare, insieme ad altri reperti lapidei ed iscrizioni risalenti all’epoca romana.

di Anna Pia Giansanti – 15 maggio 2014

Bbliografia

Marta Cangi, L’abbazia di S.Vincenzo in Petra Pertusa al Furlo. Cagli 2003

C. Cerioni e T. di Carpegna Falconieri, I conventi degli ordini mendicanti nel Montefeltro medievale. Firenze 2012